Immaginate di sentire dentro di voi, il forte desiderio di difendere una persona che uccide a colpi di pistola dei passanti. O la voglia di perdonare un uomo che fa a pezzi una ragazzina adolescente.
Molto probabilmente siete abbastanza sicuri che questo, nel vostro animo, non accadrà mai. Ma non è totalmente certo, perchè in realtà, è accaduto: e non a qualche singola persona, ma a migliaia di utenti del web, che sono caduti, senza rendersene conto, in questo fenomeno.
Questo si chiama “Odio da Social Network” ed è un problema sempre più diffuso che porta le persone a provare cose che non avrebbe mai immaginato.
La colpa è della politica
Il principale responsabile di tutto questo è la politica. La comunicazione di tipo politico si fonda ormai quasi interamente sui social network. Se all’inizio queste piattaforme servivano per avvicinare un candidato alla sua gente, in senso positivo, oggi sono state create delle tecniche distorte, per incitare all’odio.
E tutto questo ha uno scopo ben preciso. Diffondere messaggi con forti sentimenti a favore di una parte politica o contro l’avversario, ottiene l’importante effetto di “polarizzare” gli utenti. Ovvero di dividere in maniera abbastanza netta i “sostenitori” di una idea, che diventano sempre più fedeli e tifosi di un rappresentante, dagli avversari.
Il continuo stillicidio di messaggi di odio, inoltre, agisce come un “educatore”: mano a mano non ci si limita ad essere d’accordo con un politico, ma si inizia a tifare per lui, andando oltre la ragione e la oggettiva valutazione.
Avviene così, che anche se il politico attua una riforma o anche solo una proposta palesemente sbagliata o distorta, il suo gruppo di sostenitori, per pura coerenza con le loro posizioni precedenti, sentano il bisogno di difenderlo ad ogni costo. Il politico, così, si crea dei fedelissimi che amplificano i suoi movimenti e minimizzano pesantemente i suoi eventuali fallimenti.
La difesa a tutti i costi
Due casi su tutti: negli Stati Uniti, Robert Bowers ha pubblicato una serie di messaggi antisemiti su GAB, un social network che con la scusa della libertà di opinione, è diventato il covo di razzisti e nazifascisti di ogni genere. E dalle parole è passato ai fatti. 12 persone, in una sinagoga di Pittsburgh, sono state uccise dalla follia di Bowers, il quale è stato non solo capito ma difeso dai suoi amici virtuali.
Anche in Italia. Lo spacciatore nigeriano Innocent Oseghale, è stato arrestato qualche mese fa, per aver stuprato e ucciso barbaramente la 16enne Pamela Mastropietro a Macerata. Sui social, mentre la maggior parte delle persone manifestava indignazione e condanna, un’altra fetta di utenti si è comportata in maniera ben diversa.
Ingabbiati nella costante lotta contro razzisti e anti-razzisti, leghisti contro “piddini”, molti utenti che non potevano ammettere l’errore di un immigrato, hanno iniziato ad indagare sul conto di Pamela, affermando che era una tossicodipendente, che si prostituiva e che Oseghale era una “vittima” di una mancata integrazione.
Ovviamente, quando l’autopsia confermò che era vergine, si astennero bene dal commentare.
E dall’altro lato, la reazione non si fece aspettare. Luca Traini, attivista della Lega Nord, ha per anni postato su Facebook affermazioni razziste, ed esacerbato dalle polemiche sui social per Oseghale ha sparato contro un auto guidata da immigrati.
Insomma, l’odio e le differenze che sono sempre esistite nell’essere umano, vengono ulteriormente amplificate e soprattutto sfruttate abilmente.
Le contromisure dei social
I social network stessi cercano di attuare delle contromisure circa “l’odio da social network”. Il primissimo strumento è andare alla ricerca di parole chiave significative, attraverso software automatici che bloccano o segnalano post e commenti pericolosi.
Ma si tratta di soluzioni che possono funzionare solo sommariamente. Non solo è sufficiente interrompere le parole o aggiungere dei caratteri speciali come € al posto della E per aggirare i controlli, ma i programmi possono essere presi in giro dal sarcasmo, che non sono in grado di capire.
Ad esempio, un video che ha spopolato presso le organizzazioni neonaziste riprendeva una pubblicità degli anni ’80 che sponsorizzava un giocattolo: si trattava di una pasta da modellare, che poteva poi essere cotta in forno e si trasformava in un pupazzetto. L’allusione ai forni crematori dei campi di sterminio nazisti era evidente, ma nessun software è stato in grado di bloccarne il contenuto
E’ pur vero che sono stati sguinzagliati dei controllori umani, ma la partita è impari: il dislivello fra il contenuto generato dagli utenti del mondo e i dipendenti di qualsiasi azienda è stratosferico.
Se accadesse a te, sapresti che fare?
Purtroppo nel circuito dell’odio può finirci chiunque. Non solo attivisti o estremisti, ma anche persone che condividono un parere e incontrano le persone sbagliate.
Una normale discussione può rapidamente degenerare: nella maggior parte dei casi, finisce con degli insulti o al massimo con delle frasi come “Ci vediamo di persona per spiegartelo meglio?”, una piccola minaccia che molto raramente si concretizza.
Ma il rischio esiste nel momento in cui si attivano determinate dinamiche. La più comune è denominata “Shit storm”. La normale discussione degenera in litigio. Alchè una delle due parti, crea un post apposito sulla sua bacheca Facebook o lancia un hashtag su Twitter e chiama a raccolta i suoi follower più fedeli. Si crea così un gruppo semiorganizzato che prende di mira un utente, per il quale rispondere e gestire la situazione diventa difficile: un vero e proprio “branco” che può creare problemi.
Ma non solo: se il comportamento non viene immediatamente adeguato alla situazione, sono ampiamente possibili delle “vendette digitali“. Da una discussione politica si può passare alla intenzione (più o meno organizzata) di rovinare la reputazione della persona.
Tutto è valido: foto imbarazzanti, commenti offensivi, false recensioni su una pagina. Peggio ancora se si scopre che la “vittima” ha una piccola attività o azienda. E’ così che viene presa di mira la pagina Facebook, o il box di Google Business o si lasciano recensioni negative su TripAdvisor.
Finire vittime dell’odio su Facebook è purtroppo relativamente facile, e per evitare pesanti ripercussioni è necessario sapere come agire. Esistono, negli ambienti della gestione della reputazione online, delle tecniche per “salvare” il malcapitato da un circolo vizioso.
Ad esempio, la capacità di individuare i “leader” di un gruppo di haters e di isolarli scollegandoli dai gregari, o saper rispondere a certi commenti rendendo poco credibili le accuse che vengono rivolte, sono armi fondamentali in questo settore.
Meglio ancora, se il proprio nome personale o la propria azienda, hanno già una strategia di creazione del proprio brand e difesa del proprio nome, qualcosa di preventivo, che possa minimizzare i rischi in caso di crisi reputazionale.
Che tu sia un privato o un’azienda, e pensi che la tua reputazione sia a rischio per un attacco di “odio da social”, contatta i nostri esperti e chiedi aiuto.